Arte ed estetica sul crinale della modernità: intervista a Sandro Giovannini
L’arte può configurarsi come semplice pratica ludica e ricreativa, come produzione seriale e mercificata, persino come oggetto di un’attenzione scientifica e freddamente concettuale. L’arte può tuttavia assurgere a dimensione estetica organicamente vissuta, a sfondo esistenziale destinale in cui la percezione del reale viene registrata attraverso l’allusione, il rimando simbolico e la forma.
É all’adesione a quest’ultima connotazione artistica che risponde la persona di Sandro Giovannini.
Classe 1947, poliedrico intellettuale, autore di poesie, saggi e studi letterari, fondatore nel 1974 del prestigioso Centro Studi Heliopolis, che svolge un’ultradecennale attività di promozione culturale, Giovannini vanta l’ideazione della storica rivista “Letteratura-Tradizione”. Giovannini è recentemente diventato uno dei principali promotori del movimento culturale e metapolitico “Nuova Oggettività”, progetto sinergico indirizzato alla delineazione di un sentiero intellettuale e spirituale attraverso il quale percorrere i labirinti della nostra contraddittoria modernità. É grazie a questo valido interlocutore che intendiamo proporre un itinerario frammentario ma significativo nei meandri dell’arte e dell’estetica moderna.
É all’adesione a quest’ultima connotazione artistica che risponde la persona di Sandro Giovannini.
Classe 1947, poliedrico intellettuale, autore di poesie, saggi e studi letterari, fondatore nel 1974 del prestigioso Centro Studi Heliopolis, che svolge un’ultradecennale attività di promozione culturale, Giovannini vanta l’ideazione della storica rivista “Letteratura-Tradizione”. Giovannini è recentemente diventato uno dei principali promotori del movimento culturale e metapolitico “Nuova Oggettività”, progetto sinergico indirizzato alla delineazione di un sentiero intellettuale e spirituale attraverso il quale percorrere i labirinti della nostra contraddittoria modernità. É grazie a questo valido interlocutore che intendiamo proporre un itinerario frammentario ma significativo nei meandri dell’arte e dell’estetica moderna.
Si sente spesso parlare di “morte dell’arte” come di un inveramento della celebre sentenza hegeliana all’interno della modernità liquida e postmoderna. Secondo lei è possibile un’arte del XXI secolo capace di autenticarsi fra la sterile iterazione accademica e gli sperimentalismi solipsisti?
Non credo si possa porre una data per la nascita dell’arte e quindi correlativamente reputo non si possa parlare di una “morte dell’arte” se non seguendo ottusamente o superficialmente un canone interpretativo dettato da una visione del mondo “una volta per tutte”, che è sempre possibile inventariare tra le infinite ipotesi letteraliste (Hillman), anche di grande fascino. Come l’uomo per quel poco che ne sappiamo, sin dal remotissimo tempo della “complessità originaria” (De Santillana), aveva maturato una capacità straordinaria di visione dell’universo ove lo scarto artistico valeva (comunque al meno) come una delle potenti ragioni vitali, così ogni periodo storico, ove indubitabilmente predomini il clinamen e l’entropia, diviene una sfida che gli uomini di valore possono accogliere con un cuore avventuroso, come direbbe Jünger… Non mi nascondo certo che siamo postumi ad interpretare le grandi poste della fase di trapasso dalla modernità, ancora su la linea ove le ragioni dell’umanesimo e quelle del post-umanesimo sono domande inevase del nichilismo… La Tecnica (dall’orrore alla gloria), in tutte le sue forme e funzioni e l’uomo prometeico. Abbiamo cercato di sfiorare tali tematiche sia con il nostro primo libro/manifesto, molto pensato, strutturato e con una partecipazione amplissima, sia con i secondi libri/idea, che sono dei testi collettanei e potenzialmente delle sfide comunitarie: “Al di là della destra e della sinistra…” e “Per quale motivo…?”, giocati a due diversi livelli, uno più ricognitivo, attuale e scanzonato, l’altro a livello più provocatorio, impegnativo, ontologico… La sfida che abbiamo raccolto con tutto il nostro lavoro sino ad ora implica un’onestà non saccente ma sapiente che sappia equilibrarsi fra una visione del mondo da conquistarsi come strumento ineliminabile di ricerca e la complessità, da riconoscersi, da investigarsi e da integrare, che non è solo “originaria” ma strutturale.
Non credo si possa porre una data per la nascita dell’arte e quindi correlativamente reputo non si possa parlare di una “morte dell’arte” se non seguendo ottusamente o superficialmente un canone interpretativo dettato da una visione del mondo “una volta per tutte”, che è sempre possibile inventariare tra le infinite ipotesi letteraliste (Hillman), anche di grande fascino. Come l’uomo per quel poco che ne sappiamo, sin dal remotissimo tempo della “complessità originaria” (De Santillana), aveva maturato una capacità straordinaria di visione dell’universo ove lo scarto artistico valeva (comunque al meno) come una delle potenti ragioni vitali, così ogni periodo storico, ove indubitabilmente predomini il clinamen e l’entropia, diviene una sfida che gli uomini di valore possono accogliere con un cuore avventuroso, come direbbe Jünger… Non mi nascondo certo che siamo postumi ad interpretare le grandi poste della fase di trapasso dalla modernità, ancora su la linea ove le ragioni dell’umanesimo e quelle del post-umanesimo sono domande inevase del nichilismo… La Tecnica (dall’orrore alla gloria), in tutte le sue forme e funzioni e l’uomo prometeico. Abbiamo cercato di sfiorare tali tematiche sia con il nostro primo libro/manifesto, molto pensato, strutturato e con una partecipazione amplissima, sia con i secondi libri/idea, che sono dei testi collettanei e potenzialmente delle sfide comunitarie: “Al di là della destra e della sinistra…” e “Per quale motivo…?”, giocati a due diversi livelli, uno più ricognitivo, attuale e scanzonato, l’altro a livello più provocatorio, impegnativo, ontologico… La sfida che abbiamo raccolto con tutto il nostro lavoro sino ad ora implica un’onestà non saccente ma sapiente che sappia equilibrarsi fra una visione del mondo da conquistarsi come strumento ineliminabile di ricerca e la complessità, da riconoscersi, da investigarsi e da integrare, che non è solo “originaria” ma strutturale.
Lei è uno dei principali promotori del movimento politico-culturale “Nuova Oggettività”. Che progettualità può assumere in ambito artistico ed estetico il movimento?Eduardo Zarelli, in un recente intervento in un nostro libro comunitario centra meravigliosamente la dinamica estetica come l’acceleratore fondamentale di un’armonia tra macro e microcosmo, ricercabile per vocazione oltreché per convinzione razionale. Lo stesso Sessa pone già dal libro/manifesto, ove un’intera sezione è dedicata all’Estetica, nuclearmente, la potenzialità del “sempre possibile”, sia pur come opzione eminentemente filosofica, in qualità di scarto dal conforme e di scelta creativa… così Guerra, ormai programmaticamente, nell’urfuturismo vede una dimensione dell’investigabile che unisca il Novecento, ma ormai più largamente la postmodernità, alle sue migliori ragioni immemoriali. Così Bonessio di Terzet con la sua nozione di arte/poesia che non ha messaggi ma dice significati, Graziano Cecchini con l’uomo/futurista della vita che rifugge dall’appiattimento della coscienza e della volontà, Centorame con il recupero della dignità contro il mercantilismo predatorio e l’assuefazione al servilismo del senza senso, Vitaldo Conte con la fusione di pulsione/coscienza e dispersione dionisiaca per realizzare un’autentica danger art che sia lievito del futuro, De Cusatis, con la sua esatta parafrasi della complessità pessoana, maestra di pluralismo, antiplutocrazia ed autentica libertà, Alessandro Guzzi con il suo richiamo finale alla Grazia a cui si può e si deve ancorare la speranza dell’artista, Manzoni di Chiosca con il ribadire l’aspetto sacrale dell’arte nella sua finalizzazione e richiamo di Verità, Perrotta con la sua dura, daimonica, disamina della mancanza del mitopoietico per una nuova potenza signorile che possa ancora sorprendere la storia, Renzaglia con il richiamo alla potenzialità corale nella poesia/vita, dal caos operante la danza futura, Paolo Silvestri ricapitolante l’esperienza del Vertex/poesia nei suoi nobili percorsi mai improduttivi, Filippo Venturini con la sua colta interpretazione antichistica, ma di grande ed attuale evocazione, ove il sole è al centro dell’istante eterno, solo per citarne alcuni fra moltissimi, tutti costoro, per vie straordinariamente personali, e con connotazioni ben diversamente affluenti, marcano un percorso ove la dimensione estetica è stile di vita e come tale ci parla di una utopia sempre transitabile.
Arte è Bellezza e Verità, armonia organica, luce chiarificatrice, trasfigurazione simbolica e mitopoietica. Ma Arte è anche menzogna, illusione, velo pudico sull’abisso, caos dionisiaco e maschera velatrice dell’orrore. Quale tipo di arte “salverà il mondo”, o si rivelerà perlomeno adeguata a redimere la modernità?
L’artificio è una ricerca del possibile valida per noi e possibilmente per altri. Non possiamo a priori determinarci dei pubblici come a priori non possiamo neanche illuderci dell’illusione più potente che esista, ovvero di quella realtà che ci vuole apparire – quasi sempre – come dimensione esaustiva. La nuova oggettività non è un peana al realismo, vecchio o nuovo, ma un punto di aggancio indispensabile e riorganicizzante alla realtà, in tutta la sua dimensione concreta ed illusoria assieme… Il Gran Teatro del mondo apparecchiato, che esige da ciascuno di noi una rappresentazione esatta del mondo come vacuità e destino, oltreché come volontà e rappresentazione, non lascia scampo al nostro io ipertrofico, se sappiamo che la finzione suprema, alla Stevens, è compito di una vita intera, senza infingimenti e senza caricature. Se possibile cercare di parafrasare una condizione che potrebbe ipotizzarsi anche popolare, ovvero una postura che potrebbe anche vantarsi di essere comune, immediata, serena; ad esempio quella particolare disposizione che Campbell riferisce come curiosa ed educata struttura lessicale del popolo giapponese: il “linguaggio gioco” (asobase kotoba)… Il “linguaggio gioco” opera paradossalmente in condizioni sociali ove predomina una forma, molto vissuta, molto penetrata in profondità e diverrebbe quasi una caricatura, tra l’affettato ed il falso assoluto, il posatore, in un mondo sconnesso e cialtrone come è quello che predomina ora da noi, ma resta l’insegnamento essenziale del contrasto tra gioco e tragico: il gioco come tragico e il tragico come consapevolezza, distanza agente, ludica e seria assieme… E se possibile senza quell’orrore che può paralizzarla… Anche rimestare troppo, come spesso ha fatto e fa tuttora la nostra cultura, nel gotico e nell’horror, senza citare nemmeno il trash, oltre alla rivelazione smarcante ed alla giusta proiezione sull’abisso, non considera con sufficiente accortezza l’umana fragilità. Anche perché l’ossimoro esistenziale, in realtà, non va cercato in una lontananza assoluta od estrema (il portare lo sguardo dell’anima e la conseguente nostra volontà all’estremo è sempre un terminale azzardo degli eroi e dei mistici, ma anche dei pazzi e dei grandi autocrati, come ci dimostra Girard e come ci insegna la storia) ma è a portata di ogni sguardo, segreto ed in evidenza, basti pensare alla gabbia di Pound ed alla vita minima nell’erba accanto, parafrasi d’alta comprensione e quindi di vera poesia, sempre che non si sia distratti, troppo od artatamente, da quell’artificio negativo, involutivo e eterodiretto che ha nome pesanteur, che vuole e sa apparire invece così comune ed accettabile… Sembrerebbe che io esalti una sorta d’aurea mediocritas, ma sono assolutamente conscio delle poste perenni del tragico, anzi le pongo come nostro ineliminabile orizzonte filosofico, che è assieme inattenuato e universalmente ontologico, alla Noica alla Emo, certamente, ma non ne valorizzo i cascami esteticisti o le fughe per la tangente esistenziali. Noi all’artificio del sistema ben apparecchiato, contrapponiamo il nostro, con una serietà di segno contrario ma senza la sicumera che il mondialismo predilige, opera ed impone.
L’artificio è una ricerca del possibile valida per noi e possibilmente per altri. Non possiamo a priori determinarci dei pubblici come a priori non possiamo neanche illuderci dell’illusione più potente che esista, ovvero di quella realtà che ci vuole apparire – quasi sempre – come dimensione esaustiva. La nuova oggettività non è un peana al realismo, vecchio o nuovo, ma un punto di aggancio indispensabile e riorganicizzante alla realtà, in tutta la sua dimensione concreta ed illusoria assieme… Il Gran Teatro del mondo apparecchiato, che esige da ciascuno di noi una rappresentazione esatta del mondo come vacuità e destino, oltreché come volontà e rappresentazione, non lascia scampo al nostro io ipertrofico, se sappiamo che la finzione suprema, alla Stevens, è compito di una vita intera, senza infingimenti e senza caricature. Se possibile cercare di parafrasare una condizione che potrebbe ipotizzarsi anche popolare, ovvero una postura che potrebbe anche vantarsi di essere comune, immediata, serena; ad esempio quella particolare disposizione che Campbell riferisce come curiosa ed educata struttura lessicale del popolo giapponese: il “linguaggio gioco” (asobase kotoba)… Il “linguaggio gioco” opera paradossalmente in condizioni sociali ove predomina una forma, molto vissuta, molto penetrata in profondità e diverrebbe quasi una caricatura, tra l’affettato ed il falso assoluto, il posatore, in un mondo sconnesso e cialtrone come è quello che predomina ora da noi, ma resta l’insegnamento essenziale del contrasto tra gioco e tragico: il gioco come tragico e il tragico come consapevolezza, distanza agente, ludica e seria assieme… E se possibile senza quell’orrore che può paralizzarla… Anche rimestare troppo, come spesso ha fatto e fa tuttora la nostra cultura, nel gotico e nell’horror, senza citare nemmeno il trash, oltre alla rivelazione smarcante ed alla giusta proiezione sull’abisso, non considera con sufficiente accortezza l’umana fragilità. Anche perché l’ossimoro esistenziale, in realtà, non va cercato in una lontananza assoluta od estrema (il portare lo sguardo dell’anima e la conseguente nostra volontà all’estremo è sempre un terminale azzardo degli eroi e dei mistici, ma anche dei pazzi e dei grandi autocrati, come ci dimostra Girard e come ci insegna la storia) ma è a portata di ogni sguardo, segreto ed in evidenza, basti pensare alla gabbia di Pound ed alla vita minima nell’erba accanto, parafrasi d’alta comprensione e quindi di vera poesia, sempre che non si sia distratti, troppo od artatamente, da quell’artificio negativo, involutivo e eterodiretto che ha nome pesanteur, che vuole e sa apparire invece così comune ed accettabile… Sembrerebbe che io esalti una sorta d’aurea mediocritas, ma sono assolutamente conscio delle poste perenni del tragico, anzi le pongo come nostro ineliminabile orizzonte filosofico, che è assieme inattenuato e universalmente ontologico, alla Noica alla Emo, certamente, ma non ne valorizzo i cascami esteticisti o le fughe per la tangente esistenziali. Noi all’artificio del sistema ben apparecchiato, contrapponiamo il nostro, con una serietà di segno contrario ma senza la sicumera che il mondialismo predilige, opera ed impone.
In un suo scritto lei collega la dimensione estetica a “quella metánoia che tutte le pratiche operative prevedono, come rovesciamento efficace e creazione di senso”. In che modo l’arte può determinare un mutamento interiore dell’uomo e, verso quale direzione?
Dal punto di vista di un semplice zero quale io sono e voglio restare per essere libero e produttivo, sia dal punto di vista del pensiero che da quello dell’azione artistica, vedo questa nostra sfida, senza il carico di un patetico tragismo, di una serietà di facciata, di un ideologismo di tipo sostanzialista. Non per parlare tanto di me ma per rispondere senza fumisterie, ho adottato una logica creativa di tipo fenomenologico e dialettico, ma orientata sempre da una tensione spirituale che, nel mio caso è una vocazione, sin dagli anni giovanili. Quindi sia nella scrittura, nel mentre che cerco il confronto senza attenuanti e nello stesso tempo mi oriento in un dialogo ininterrotto con le grandi lezioni dei maestri, così nella produzione artistica opero per aggiungere e levare, ove la citazione e l’evocazione (immagine+scrittura) possono formarsi per una complessione gestaltica. Se però tutti noi non fossimo orientati dall’alto e verso l’alto, il rovesciamento efficace della piena della manifestazione, della pesanteur, che è comunque Maya in divinis, non troverebbe mai un punto di riferimento stellare. Noi siamo e restiamo degli autentici idealisti, seppur in un quadro di completa consapevolezza della nostra realissima marginalità attiva e della nostra minorità in termini comunicativi, sia pur non certo in quelli di verità. E sono consapevole che aver delineato in termini di tale generalità il problema non è un’evasione dall’onestà degli ineliminabili singoli posizionamenti, sia confessionali che ideologici, quanto una più corretta superiore visione delle qualità comunque presenti. E, nello stesso tempo, aver indicato anche la mia via personale, è un segno di uno dei tanti possibili percorsi attuabili. Ma fino a quando è possibile mettere in comune, in una logica comunitaria, la vocazione creativa e la passione civile, siamo certi di svolgere al meglio ciò che reputiamo essere il nostro dovere.
Dal punto di vista di un semplice zero quale io sono e voglio restare per essere libero e produttivo, sia dal punto di vista del pensiero che da quello dell’azione artistica, vedo questa nostra sfida, senza il carico di un patetico tragismo, di una serietà di facciata, di un ideologismo di tipo sostanzialista. Non per parlare tanto di me ma per rispondere senza fumisterie, ho adottato una logica creativa di tipo fenomenologico e dialettico, ma orientata sempre da una tensione spirituale che, nel mio caso è una vocazione, sin dagli anni giovanili. Quindi sia nella scrittura, nel mentre che cerco il confronto senza attenuanti e nello stesso tempo mi oriento in un dialogo ininterrotto con le grandi lezioni dei maestri, così nella produzione artistica opero per aggiungere e levare, ove la citazione e l’evocazione (immagine+scrittura) possono formarsi per una complessione gestaltica. Se però tutti noi non fossimo orientati dall’alto e verso l’alto, il rovesciamento efficace della piena della manifestazione, della pesanteur, che è comunque Maya in divinis, non troverebbe mai un punto di riferimento stellare. Noi siamo e restiamo degli autentici idealisti, seppur in un quadro di completa consapevolezza della nostra realissima marginalità attiva e della nostra minorità in termini comunicativi, sia pur non certo in quelli di verità. E sono consapevole che aver delineato in termini di tale generalità il problema non è un’evasione dall’onestà degli ineliminabili singoli posizionamenti, sia confessionali che ideologici, quanto una più corretta superiore visione delle qualità comunque presenti. E, nello stesso tempo, aver indicato anche la mia via personale, è un segno di uno dei tanti possibili percorsi attuabili. Ma fino a quando è possibile mettere in comune, in una logica comunitaria, la vocazione creativa e la passione civile, siamo certi di svolgere al meglio ciò che reputiamo essere il nostro dovere.
Intervista a cura di Luca Siniscalco
fonte LUUKMagazine.
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noi cani senza lacci ne padroni