Testo di Marcello Francolini La città che sale:
Quadro arcinoto di Umberto Boccioni. Opera fondante, insieme al Manifesto della Fondazione, del 1909, del pensiero complesso del Futurismo. Una città che sale, che si erge espandendosi verso il cielo. Il suo muoversi in un insieme vorticoso, quelle folle agitate, maree multicolori o polifoniche, diventa un mare di onde-forza astratte create dalle groppe dei cavalli che spingono, folla di muscoli che si scontrano, si intersecano, si compenetrano. Sono architetture balenanti al sole con un luccichio di coltelli, tutto è strutturato fin dentro la materia, finanche lo spazio si solidifica nella sua struttura atomica, il corpo è colto nel pieno della sua plasticità, appunto una città che sale, una gloria plastica del salire. Si vede in quest'opera già una simultaneità delle immagini; questa plastica forza astratta esplodente da un corpo in moto o da una intera emozione vissuta; la plastica della velocità e la compenetrazione della figura con l'ambiente.
Non più pittura della rappresentazione ma pittura dello stato d'animo. Appunto di sensibilità si parla, ma non una sensibilità esclusiva, mirante solo al senso artistico; quest'opera è un’occasione per Boccioni di teorizzare visivamente un pensiero sulla società, della quale intuisce un cambiamento, uno squilibrio della normale routine classica, un movimentismo d'azione che genera un tumultuoso divenire. In quest'opera non possiamo soffermarci soltanto a costatare la forma; è ovvio che ci troviamo ancora in una primissima fase del futurismo giacché abbiamo ancora a che fare con un opera sostanzialmente pittorica, ma che sembra già protesa verso una atomizzazione genetica e strutturale dell'immagine, non più condizionata da un rapporto rappresentativo ma costruita in una propria autonoma dimensionePOLITICAMENTE ANNO VIII, N. 88 – dicembre 2013
progettuale. Dobbiamo tenere conto del contenuto sotteso, del giudizio ontologico dell'opera, per dirla alla Crispolti. C’è la pre- visione del pensiero futurista verso la società da venire, a partire proprio dal connubio tra scienza e tecnologia che dalla II° Rivoluzione industriale aveva iniziato ad accelerare il processo di trasformazione del vivere quotidiano. Nasce la città-cantiere, l'industria si potenzia, la tecnologia militare si affina nella sua perfezione meccanica, si sviluppa la fotografia, la telegrafia, nasce la cinematografia, la chimica entra prepotentemente nell'industria generando i prodromi di quella produzione di realtà artificiale, riprodotta in laboratorio. Proprio quella sensibilità chimica che i futuristi utilizzeranno come base per una più vasta sensibilità lirica della materia. In questa visione non c'è differenza tra natura e artificio, non è l'uno a sfavore dell'altro e tanto meno il secondo sostituisce il primo, è semplicemente la costatazione di una natura diversa, che ha guadagnato dei valori aggiunti, positivi o negativi che siano, e così si è trasformata ponendosi ai nostri occhi come un mondo nuovo. Quest'intuizione sta alla base della complessità del pensiero futurista, l'arte-vita come necessità storica.
Il mondo per i futuristi è uno spazio vitale non determinato né determinabile a priori e di conseguenza l'arte che ne risulta, è essa stessa indeterminabile, aperta (nel senso semantico della significanza). Forse è leggibile così la frase famosa “noi siamo i primitivi di una nuova arte” giacché i futuristi aprono a un immaginario nuovo. Se è vero che il Futurismo nasce sin da subito come movimento poetico, la poesia come ci ricorda Platone, anticipa nuovi scenari, ha in ciò un carattere universale.
Il pensiero futurista coglie il cambiamento in atto, la comunicazione, le reti, i mercati, i trasporti, i rapporti sociali, l'arte, tutto subirà un cambiamento di stato, rinnovandosi. Ciò scatena un entusiasmo ottimista nel pensiero futurista, che spesso è stato superficialmente ridotto a una fiducia incondizionata nel progresso scientifico, ma esso è solo la punta dell'iceberg, obbligo nostro è smettere di guardarlo dalla superficie, metterci la muta e
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scendere al disotto per sondare ciò che è oltre l'apparenza, oltre la prima vista, a un metro di profondità, a cento, duecento metri, fino al fondo. Quel fondo che nel Futurismo è la costruzione del mondo, che passa necessariamente per l'affermazione dell'uomo come essere indeterminato, “un animale non fissato una volta per tutte (Nietzsche)”. I Futuristi in ciò vanno oltre, non è discorso confinato all'arte, ma alla vita appunto, ma non la vita quotidiana, una vita possibile all'interno di un mondo in continuo cambiamento, un vivere in divenire. L'arte-vita è un concetto fondante del pensiero futurista, ma spesso è stato travisato per giustificare qualsiasi esperienza artistica nel Novecento. All'estremo opposto dell'arte-vita c'è il pointing duchampiano, quella pratica per cui anche un semplice gesto di puntare il dito verso un grattacielo diventa un momento artistico. Ulteriore avanzamento del concetto di ready-made che già prevedeva la possibilità di prelevare estratti di quotidianità per elevarli ad opere d'arte combinandole a proprio gusto, il pointing in un certo senso compie quel processo di santificazione dell'artista, inteso come artista genio, per questo essendo i suoi geni immutabili e radicati in lui tutto ciò che fa assume valenza artistica. Quest'intendere così l'arte-vita ha generato nel tempo, ieri e oggi non poca confusione di ciò che i futuristi volevano intendere, non certo parlavano di esclusività genetica, anche perché in geni non si trasformano nell'arco della vita, restano immutabili. Questo è necessariamente un pensiero individualista, che poco si confà alla pratica movimentista del futurismo, la creatività nasce in contrasto e sintonia coll'esterno, e quindi non è certo un chiudersi nell'arte, ma un aprirsi alla vita. In definitiva non si pratica un arte-vita perché si è artista apriori, al di sopra degli altri. La questione genetica al Futurismo non interessa, del resto sarebbe come possedere uno spazio definito, e i futuristi volevano arrivare alle stelle, e poi tutto diventerebbe una essenza fissata una volta per tutte, rassicurante, (che è anche una permanenza immutabile, proprio come i geni). Al contrario, per i futuristi possedere uno
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spazio vitale indeterminato indica la mancanza di una simile essenza, non in senso letterale, bensì nei termini per cui la peculiarità di un tale essere è il non essere fissato una volta per tutte. Il Futurismo risulta, così un eccedenza, una fatale tensione a proiettarsi al di là del semplice dato delle condizioni naturali, tentando di modificare la sensibilità tutta, riunendola nel dualismo di corpo e mente. Un'arte che si sviluppa a partire dalla sensibilità che non è altro che il modo più diretto per interagire con lo spazio della vita, e che a suo modo non può che richiedere una partecipazione diretta tra l'artista, il suo operare e gli altri, tutti. Una pratica collettiva, questa è l'arte-vita, l'utopia di una società che attraverso l'arte trova se stessa. Non è certo l'arte che genera i significati all'interno di se stessa per darli poi a una società pronta a raccoglierli in modo passivo (un Duchamp ad esempio sembrerebbe vincolato ad un dato oggettivo, la cui pratica è quella di limitarsi a mostrare diversamente il presente, e riqualificare così la realtà senza possibilità di confronto) non un arte-vita vista dall'arte ma vista dalla vita e quindi non un arte relegata nel proprio ambiente, ma un arte come ambiente non ambiente, cioè mondo. Una città che sale.
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noi cani senza lacci ne padroni