Echaurren-Salaris. Riviste futuriste…
L’articolo che segue è stato pubblicato oggi, 1° febbraio, sul settimanale Altri.
La redazione
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Storicizzare il Futurismo, madre e padre di tutte le Avanguardie che in un secolo, per quanto “breve”, si sono succedute nel Novecento ed ultra, è un’impresa ardua per due motivi, uno teorico e uno pratico. Quello teorico: come si fa a storicizzare un movimento che sin dalle origini dichiara di volersi superare continuamente? Ovvero: che ad ogni punto di arrivo si rilancia in avanti verso ulteriori approdi stilistici, bruciandosi continuamente i ponti alle spalle? «I più anziani fra noi – scriveva Marinetti – hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compiere l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani di noi ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili. Noi lo desideriamo».
Probabilmente, Marinetti bluffava ed era il primo a desiderare che la vicenda del suo movimento restasse negli annali della storia dell’arte, così come a pieno titolo di benemerenza era doveroso accoglierlo subito. Invece, fosse stato per le nostre istituzioni culturali, il rischio dell’oblio il Futurismo lo ha corso davvero. Per decenni, dalla fine del Secondo conflitto mondiale, una pervicace ipocrisia di stampo meramente ideologico l’ha quasi del tutto rimosso: la compromissione con il regime fascista da parte di Marinetti e di moltissimi suoi sodali creava imbarazzo e pregiudizio. Eppure, il Futurismo suscitò fin da subito un interesse e un entusiasmo che andavano ben oltre i confini nazionali: dalla Russia alla Francia, dal Giappone all’Inghilterra, al Brasile che lo avrebbero potuto e dovuto sganciare dalle strette affinità con il Ventennio. Senza contare che rimuovendolo dall’anima creativa del Novecento si fa perfino difficoltà a comprendere da dove escano fuori, per esempio, i Novissimi degli anni 60. Un certo risveglio di attenzione si ebbe a partire dalla seconda metà degli anni 80. Ma si trattava, più che altro, di un recupero di nicchia, quasi elitaria. E anche se, già nel 2007, un artista italiano, Graziano Cecchini, aveva rilanciato in tutto il mondo l’immagine futurista – rivendicandone l’eredità – con l’incendio di rosso anilinico della Fontan di Trevi, il definitivo sdoganamento è arrivato solo in coincidenza delle attività celebrative per il centenario del suo atto di fondazione: quel Manifesto pubblicato sulla prima pagina del Figarò a Parigi, il 20 febbraio 1909.
Meglio tardi che mai verrebbe da dire, se non fosse che il tempo perso ha provocato, come si diceva all’inizio, un’oggettiva difficoltà anche pratica a storicizzarlo. Tanto più che l’attività del movimento è stata così frenetica, prolifica e per molti aspetti dispersiva che si fa fatica a recuperare tutto il materiale prodotto. A colmare una lacuna vistosa riguardo l’immensa pubblicistica che i futuristi agitarono nel corso della loro vicenda, provvede ora la Fondazione di Pablo Echaurren e Claudia Salaris che raccoglie nel volume Riviste Futuriste (Ed. Gli Ori, 2012, € 100) la loro collezione privata costruita in decenni di appassionata ricerca, iniziata nel 1977. Centinaia e centinaia di fogli – tutti documentati con le foto delle prime pagine delle pubblicazioni, e commentati con rigore scientifico – illustrati, a colori o in bianco e nero; con la copertina o senza; di bollettini e cronache; di invettive, di parolibere, di studi ragionati sullo stato dell’arte, della politica, della scienza; spesso numeri unici raccolti in poche pagine, editi nelle città più grandi o in sperduti paesi della provincia… restituiscono al cultore lo spaccato dello straordinario fervore artistico e intellettuale che il movimento futurista seppe creare intorno a sé, animando per decenni il dibattito artistico e intellettuale di un’Italia che usciva dal torpore dell’accademia e si trasferiva a discutere di cultura nei caffè letterari, nelle piazze, nelle officine, nelle caserme.
Erano, queste riviste, tutte o quasi autoedizioni, con poche speranze da parte delle redazioni di rientrare almeno delle spese di tipografia. E a tal proposito, nella prefazione, Claudia Salaris – già autrice nel 2009 di un altro prezioso volume: Futurismo, l’avanguardia delle avanguardie (Ed. Giunti) – ricorda un gustoso aneddoto, traendone le giuste conclusioni: «Prezzolini accusava Marinetti di essere un “disorganizzatore” a causa delle sue strategie promozionali che contraddicevano le regole del mercato editoriale. “Il libro futurista non vale più nulla”, sentenziava e aggiungeva: “chi è mai stato così imbecille da comprare un libro futurista quando sa che inviando un semplice biglietto da visita a F.T. Marinetti, Corso Venezia 61, Milano, se ne vedrà scaraventar dalla posta un intero pacco, e, più tardi, riceverà regolarmente tutti quegli altri che l’officina va pubblicando?”. La conclusione era lapidaria: “la roba regalata val meno di quella pagata”. La storia l’avrebbe smentito: oggi le prime edizioni futuriste non solo sono tra le più richieste e quotate nel mercato antiquario, ma superano notevolmente le pubblicazioni vociane. La marinettiana editoria del dono, antieconomica nei tempi brevi, è diventata produttiva e vincente nella lunga distanza».
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