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«We can be heroes / just for one day». Possiamo essere eroi solo per un giorno, cantava trent’anni fa David Bowie in una delle sue canzoni più famose, Heroes. E la storia della musica è piena di meteore che hanno avuto il loro “giorno” di notorietà, almeno quanto di vecchie star imbolsite che sopravvivono ai margini dello star system cercando di mettere a frutto residuali rendite di posizione.
David Bowie non appartiene alla schiera dei piccoli risparmiatori del successo. «La cosa peggiore è mantenere un certo tipo di celebrità per tutta la carriera e poi ripensare a tutte le cose che si sarebbero potute fare o tentare, e chiedersi: perché non l’ho fatto?»
Rendiamogli merito: si è tenuto ostinatamente alla larga dal mucchio degli anticonformisti di professione. «Volevo solo esprimere quanto mi sentivo estraneo alla società. Non ho mai voluto che mi si considerasse il leader o il portabandiera di un movimento. Sono un individualista». Trasgressivo e ironico, geniale e sconsiderato, al tempo stesso giocatore d’azzardo e abile imprenditore della propria immagine. Sul piatto ha sempre puntato tutto quello che aveva, perdendo e vincendo, rilanciando l’intera posta, lasciandosi alle spalle successi e sventure familiari e personali, non ultime la dipendenza dalla droga e un cuore difettoso. Ogni volta determinato a sperimentare il nuovo, anche a costo di inciampare in clamorosi fiaschi, di deludere il proprio pubblico, di indispettire i sacerdoti della critica ideologizzata, che vorrebbero fare della musica uno strumento di lotta politica, naturalmente a senso unico.
Il Duca bianco, l’alter ego aristocratico e algido che forse più gli appartiene, l’8 gennaio ha compiuto sessant’anni d’età, quaranta dei quali impegnati in una carriera quanto mai eclettica, nel corso della quale non ha mancato di cimentarsi con il cinema (alternando importanti ruoli da attore consumato a preziosi cameo). Chi ha avuto modo di vedere The prestige, in questi giorni nelle sale, ha avuto modo di apprezzare la carismatica interpretazione dello scienziato Nikola Tesla, l'unico personaggio realmente esistente della pellicola ambientata nell'Inghilterra della fine dell'Ottocento. Ma Bowie non si è risparmiato di calcare le orme del palcoscenico: in teatro è indimenticabile l'interpretazione dell’alieno Ziggy Stardust. E proprio The rise and fall of Ziggy Stardust and the spider from mars è un concept-album su ascesa e (auto)distruzione di un "plastic-rocker". Così si presenta "l'uomo che cadde sulla terra", il profeta di una rivoluzione rock che dura una stagione sola, il tempo che passa tra la sua ascesa e la sua caduta. E in questa metafora è racchiusa l'intera messa in scena dell'estetica di Bowie: la realizzazione del principio enunciato da Andy Warhol del "quarto d'ora di celebrità", l'edonismo morboso di Dorian Gray, la parodia del divismo e dei miti effimeri della società dei consumi.
Ma le sue esperienze artistiche spaziano anche nella televisione, nella pittura e persino nel web. Nel ‘98 lancia un proprio Internet Service Provider - BowieNet - valutato, appena un anno dopo, oltre trecento milioni di sterline. L’eccezionale capacità di cambiare pelle, di reinventarsi artisticamente, e di captare le nuove tendenze, lo ha spinto a sperimentare generi musicali diversi, inaugurandoli (come il glam) o rielaborandoli con il suo stile caratteristico.
Con tratto da artista prima ancora che da rockstar, ha mescolato - come su una immaginaria tavolozza - colori e ingredienti diversi: dalle ballate melodiche al pop psichedelico ed elettronico, passando disinvoltamente dall’hard rock alla dance, da rassicuranti atmosfere da luna park a inquietanti motivi claustrofobici e ritmi teutonici. «Creo qualcosa partendo dall’entusiasmo di un determinato momento, poi quella cosa non esiste più, vado avanti. Sono fatto così, non cerco scuse».
Percorso non sempre apprezzato dagli ortodossi custodi del rock “impegnato”. «A quei tempi non era corretto nutrire interessi disparati, ti dovevi decidere: o eri un cantante folk o rock o un chitarrista blues. Io sentivo di non voler sottostare a queste distinzioni». Gli inizi sono particolarmente duri e la sua musica non sarà mai del tutto accettata in America, neanche quando le vendite degli album cominciano ad assumere consistenza. E' il manager Kenneth Pitt a suggerirgli di adottare il cognome Bowie (dal coltello "bowie-knife") per evitare confusioni con Davey Jones dei Monkees.
Negli States il modello di riferimento della musica rock è il rocker amico, semplice e spontaneo, che narra la vita di tutti i giorni. «Non sono il tipo che sale sul palco e vi racconta come gli è andata la giornata» spiega Bowie. Piuttosto che riempire le sue canzoni di accattivanti proteste sociali e strizzare l’occhio al pubblico, preferisce disorientarlo con arrangiamenti sin troppo raffinati, citazioni nietzschiane e suggestioni estetiche decadenti e futuriste nelle quali il non detto e il linguaggio del corpo finiscono con il prevalere sui contenuti.
E’ insofferente e distante rispetto al rock che si alimenta nelle grandi adunate pacifiste e si autopromuove nelle iniziative umanitarie. «Non sono fatto per gli slogan. Preferisco lasciare questo compito a Sting. Ho poca simpatia per l’umanità. Si è giustamente cercato di cambiarla, io penso che sia fatica sprecata. Sono troppo egoista per lasciarmi coinvolgere».
Provocazioni che lasciano il segno, come quando affermò che «all’Inghilterra farebbe bene un periodo di fascismo». Dichiarazioni che ne fanno un idolo per i giovani del National Front inglese e gli costano una schedatura dell’FBI come “simpatizzante neonazista”. Così come fa chiacchierare la sua ammirazione per Benito Mussolini e Yukio Mishima, l’interesse per la mitologia del Sacro Graal e l’esoterismo.
Pochi altri come lui hanno diviso e continuano a dividere pubblico e critica, attirando entusiasmi e stroncature. Carismatico, affascinante e innovatico per i fans; eccessivo, ambiguo e “commerciale” per i detrattori, per i quali quelle di Bowie sono solo canzonette, «rock’n’roll con il rossetto» come le definiva John Lennon. «Alcuni dicono che Bowie è tutto stile superficiale e idee di seconda mano - dichiarava nel ’99 Brian Eno (con il quale darà vita ad un proficuo sodalizio artistico e intellettuale) - ma a me questa sembra la migliore definizione della musica pop. E’ un’arte popolare. Nella musica colta ci si aspetta che l’opera sia completamente originale e che l’ispirazione giunga come per incanto, direttamente da Dio. Nella musica pop ognuno ascolta e ripete quello che fanno gli altri».
«L’opera d’arte è compiuta solo quando il pubblico vi aggiunge la propria interpretazione» sostiene Bowie. Nessun altro artista è riuscito in maniera altrettanto efficace ad evidenziare l’infondatezza di una rigida linea di demarcazione tra la cultura cosiddetta alta e quella bassa, e l’assurdità della distinzione tra rock e pop quali espressioni contrapposte di arte e commercio. «Probabilmente sono considerato il camaleonte del rock perché non faccio altro che cambiare! I clichès sono pura follia. Ma il camaleonte cerca continuamente di mimetizzarsi con l’ambiente circostante, e non credo proprio che questo sia uno dei miei tratti distintivi». E certamente Bowie è un non conforme, un irregolare, un dandy alla ricerca costante del coup de theatre, un irrequieto impenitente. «Non sapere in che direzione sto andando è per me la sensazione più eccitante. E’ un paesaggio sempre aperto». E ciò che lo rende indistruttibile è la capacità di stupire e stupirsi, come in Changes: «Cambiare è anche ricerca di sé / mi rivolsi a guardare me stesso per poi trovarmi di fronte ad un estraneo».
Nonostante i suoi album siano da tempo lontani dai primi posti delle classifiche, Bowie resta uno dei protagonisti assoluti della scena mondiale: dal 1997 è anche quotato in borsa, grazie all'emissione dei Bowie Bonds effettuata offrendo a garanzia le royalties ricevute per i dischi venduti fino al 1993 (circa un milione di copie l'anno). Da questa operazione pare abbia ricavato più di 40 milioni di euro. Malgrado la sua attività sia rimasta intensissima, negli ultimi anni Bowie non ha ritrovato il successo: Black tie white noise, Outside, Hours, Reality, Heathen sono album lontani dalla magia di un tempo. Ma è rimasto un protagonista in tutti i settori.
Anche il matrimonio con la modella Iman ha contribuito a consolidare il suo mito. Perchè lo stars system si nutre anche di gossip e il Duca bianco, a dispetto dei sessant'anni appena compiuti, anche in questo non ha nulla da invidiare ai suoi più giovani colleghi.
Fonte il secolo d'Italia mercoledì 17 2007.