Ottavio Missoni, «Tai» per chi lo conosce bene, sta partendo per la sua amata Dalmazia, dove passerà l’estate. Parte contento del successo che sta riscuotendo la sua mostra a Londra, presso l’Estorick Collection of Modern Italian Modern Art, soddisfatto di trovare le sue creazioni ben integrate nel discorso futurista che il museo rappresenta, e infine lusingato dalla riconosciuta assonanza del suo lavoro con il modernismo nell’arte.
Confessa di essere sempre stato un entusiasta di Balla, di cui oggi possiede tre opere, e di Severini.
Atleta olimpionico, artista della moda, Tai Missoni, classe 1921, è una personalità vulcanica. Un parlatore gioioso e appassionato. Del suo lavoro, della condizione umana, della sua patria. Ma non di politica: «Io non c’entro con la politica italiana» dice. Eppure la sua storia è emblematica di chi è stato preso nelle reti della storia e della politica.
Lei è nato a Ragusa (oggi Dubrovnik), ha passato la giovinezza a Zara, ha vissuto l’esilio. Come ricorda l’esodo?
«Sono uno dei circa 360mila profughi giuliano-dalmati. Sono di Zara, che ha subito 52 bombardamenti: 4.000 morti circa, senza contare quei mille finiti in fondo al mare, da noi non c’erano le foibe, per quelli di Zara c’era il mare Adriatico. Siamo sparsi in tutto il mondo, italiani due volte, una per nascita, l’altra per scelta. Ma solo nel 2004, dopo sessant’anni di dimenticanza della sinistra, il governo Berlusconi ci ha dedicato il Giorno del Ricordo. C’è stata una piccola differenza fra l’essere stati liberati dagli americani o dai comunisti di Tito».
Durante i bombardamenti di Zara lei non c’era...
«No, i bombardamenti dal ’43 al ’45 se li è goduti mia madre, ancora anni dopo quando sentiva passare un aereo tremava. Io invece ero in Egitto, prigioniero degli inglesi. Quattro anni in un campo di prigionia tra il canale di Suez e il Cairo, nei pressi di Ismailia».
Che ricordi ha?
«A Zara avevo passato l’ultimo Natale, nel 1941, e subito dopo sono partito militare. In estate sono stato spedito in Africa a combattere sul fronte di El Alamein, dove mi hanno fatto prigioniero. Rifiutai la cobelligeranza. Volevano che accettassi un certo signor Badoglio, ma io non lo conoscevo».
I territori perduti li rimpiange?
«Non ho rimpianti, perché quei posti non ci sono piú. Tutti gli anni faccio le mie vacanze su e giú per la costa dalmata dall’Istria, alle bocche di Cattaro. Vede, un emigrante, ovunque sia, può sempre sognare di tornare un giorno ai suoi cari luoghi. Noi non abbiamo piú un posto dove tornare. Possiamo solo avere l’amore che portiamo alla terra d’origine».
Che si traduce nella grande solidarietá che ancora vige fra voi profughi
«Sí, la solidarietá continua, ma vorrei anche sottolineare la grande dignitá di questi 360mila profughi, nell’Italia del Dopoguerra che negava l’esodo. Il nostro Paese ha taciuto la verità per molto tempo».
In che misura il suo vissuto storico ha influenzato la sua forza creativa?
«È difficile dirlo, le forze creative non hanno regole, siamo creativi ogni giorno, ognuno nel proprio campo. Quando facciamo qualcosa, il tocco finale è la somma più o meno di tutte le nostre esperienze, tutto si traduce in quell’ultimo gesto creativo».
Tre figli, nove nipoti e un impero economico. Analizzando il percorso del suo lavoro da quando faceva le maglie in uno scantinato, come spiega tanto successo?
«Senza programmare niente, rifacendo le cose, lavorando sulla materia e il colore. Abbiamo rotto certi schemi prestabiliti nella moda. A volte se si vuole riuscire bisogna andare contro le regole».
Le sue creazioni rigorose e lineari oggi sono una sintesi di arte e di moda, come la rassegna londinese dimostra...
«Non sta a me dirlo. Adesso l’arte non ha più confine, materia e colore sono le due componenti del mio mestiere, che possono essere viste anche dal punto di vista artistico, soprattutto il colore. Per me il colore è armonia, anche se mi piace giocare con le dissonanze».